recensione
Mer, 22 Dic 1999 16:55:40 +0100
“ Tempo di lavoro e forme della vita- verso le 35 ore e oltre” di Giovanni Mazzetti  Edizione Manifesto

Sembrava impossibile credere che potesse divenire una realtà, quanto scriveva nel 1980 il futurologo Alvin Toffler, nel libro “La Terza Ondata  Il tramonto dell’era industriale e la nascita di una nuova civiltà”, sulla fine dell’orario di lavoro 9/17.
I cambiamenti negli orari invece ci sono e sono profondi e incidono sulla qualità della vita, non sempre in modo giusto.
Le nuove tecnologie, le modifiche organizzative per fronteggiare le sfide della globalizzazione dei mercati costituiscono le motivazioni principali alle modifiche attuate ed a quelle in divenire.
Le problematiche occupazionali segnano la debolezza più marcata, appesantendo il numero dei disoccupati che abbiamo ed offuscando le prospettive di sviluppo lavorativo.
La nostra società, oggi, ha una crescita media annua della produttività più elevata del tasso d’aumento dei consumi. Questi sono adeguatamente promossi attraverso anche l’allargamento della gamma dei beni tra cui scegliere per spendere il reddito, cui, le misure attuate dall’accordo del 23 Luglio 1993, hanno mantenuto potere. Di contro il sistema produttivo non produce beni e servizi di cui molti avvertono la necessità. Paradossalmente, compriamo ciò cui potremmo facilmente rinunciare e non abbiamo disponibili beni e servizi che, pur di averli, pagheremmo.
In questo quadro, se non riusciamo ad aumentare il livello dei consumi a fronte dell’aumento produttivo ed il tempo disponibile per fruire dei consumi, non cresce l’occupazione e nemmeno il consumo dei servizi.
La riorganizzazione dei tempi di lavoro prende le mosse, appunto, da questa situazione.
Le esperienze fin qui conosciute indicano che la riorganizzazione non comporta necessariamente una riduzione dell’orario di lavoro, anzi purtroppo, da un lato e per alcuni lavoratori, come quelli d’elevata qualifica, gli orari di lavoro di fatto si stanno allungando.
Lo stato d’indeterminazione che viviamo alimenta la curiosità su tutto ciò che succede e si scrive intorno ai temi del lavoro, del tempo di lavoro sperando, ogni volta, di trovare le piste giuste per risolvere l’incapacità di sviluppare occupazione.
Questo è lo stato d’animo con il quale ho letto il libro di Giovanni Mazzetti “ Tempo di lavoro e forme della vita- verso le 35 ore e oltre” edizione Manifesto.
La tragedia della disoccupazione, fatta di una miriade di drammi umani, di frustrazioni, d’adattamenti, di rabbia, di vecchie e nuove subalternità e che genera un substrato culturale progenitore di nuovi e vecchi razzismi e di più ampi egoismi, costituisce sicuramente il motivo che pone l’autore in una posizione d’intolleranza verso le obbiezioni formulate alla riduzione dell’orario di lavoro per legge, posta da Rifondazione Comunista al Governo Prodi in cambio del voto sulla legge finanziaria del 1998. Non salva nessuno, nemmeno Nerio Nesi, al qual è dedicato un paragrafo nel capitolo titolato Quando l’avversario va oltre misura, accomunandolo assieme a Ciampi, Agnelli e Monti.
Il libro, ricco di argomentazioni, ma non di dati, tabelle, casi e simulazioni che potevano essere loro di sostegno, colpisce per le ragioni addotte a sostegno della riduzione dell’orario per legge, perché sul loro sviluppo potrebbe essere messa in discussione l’intera esperienza sindacale del nostro Paese e vanificato il tentativo, rappresentato dagli interventi in atto nella pubblica amministrazione, di rendere la presenza dello stato più leggera rispetto al passato.
Scrive” la dinamica storica generale non giustifica affatto una resistenza di principio alla legiferazione in materia d’orario. Come demarcare il limite? Le riflessioni sopra svolte sul fondamento dell’intervento pubblico in generale ci consentono di riconoscere che si può coerentemente sostenere che l’orario dovrebbe essere oggetto della sola contrattazione se si dimostra che il livello sul quale la durata del lavoro incide, nel fare la vita della collettività, è solo privato o, alternativamente, che, pur investendo la vita sociale nella sua globalità, le “parti” sono comunque in grado, nel corso delle trattative, di agire come se non fossero parti, bensì il tutto. Dunque si può chiedere allo Stato di restar fuori solo se l’interesse che è investito nel decidere contrattualmente della durata del lavoro ha una valenza solo particolare, cioè privata, o se la capacità che determina contrattualmente quella durata è già una capacità che contiene in sé immediatamente l’universale.”
Il prof. Mazzetti è convinto che la riduzione dell’orario corrisponda alla seconda ipotesi.
Con lo stesso ragionamento si potrebbe sostenere che anche per le retribuzioni, od altro istituto contrattuale, avendo contenuto universale, è la legge il metodo da usare per la loro regolazione.
L’orario legale deve continuare a svolgere la funzione di garanzia generale per i lavoratori, soprattutto quelli più deboli contrattualmente, riguardo ad esigenze di tutela della salute e sicurezza e, più in generale, per stabilire limiti inderogabili alle Parti, perché corrisponde, giustamente, al dettato costituzionale e comunitario; ma, la riduzione degli orari è storicamente assegnata alla contrattazione, unitamente all’organizzazione del tempo, il modo di computo, le ulteriori riduzioni.
Continua, l’autore sostenendo che “capita, infatti, che le istituzioni siano in anticipo sulle parti sociali nel rilevare l’esistenza di un problema collettivo, o che, più spesso, abbiano un potere che queste, a causa della situazione congiunturale o dei contrasti, ancora non hanno.”
La costituzione formale e materiale del nostro Paese, sopra descritta in materia d’orario, ha consentito la riduzione degli orari contrattuali alle 37-38 ore medie con l’orario legale a 48 ore, anticipando, contrariamente a quanto sostenuto da Mazzetti, la “forma politica dell’istanza”.
L’esperienza c’insegna invece che è la contrattazione la via per governare la complessità anche ai fini di generare occupazione.
La disoccupazione è sicuramente la principale forma d’esclusione sociale. Si può sopravvivere, ma se non si riesce a lavorare si è oggettivamente esclusi dai processi sociali.
Credo, per la delicatezza e la serietà che meritano gli esclusi, che non possiamo soffermarci su un solo strumento d’intervento, peraltro di dubbia efficacia.
Servono interventi in più direzioni (sull’orario, sul mercato, sulla fatiscenza strutturale, sulla formazione continua, sulla scuola, sugli investimenti), un insieme coerente in grado di costituire una politica capace di aumentare e diversificare le attività lavorative.
Le vicende francesi che in questi giorni trovano spazio sulle pagine dei giornali,
a proposito della riduzione per legge dell’orario settimanale a 35 ore, ci richiamano un altro aspetto non preso adeguatamente in considerazione dal professore. Si tratta della convenienza di tutte le parti a ridurre l’orario ed aumentare l’occupazione in un mercato ipercompetitivo come l’attuale.
E’ un bel affermare che dobbiamo lavorare di meno e che ciò è un diritto che deriva dalla storia di sfruttamento, se poi chi può trasferire i suoi investimenti in quelle aree del mondo, che a parità dei livelli di qualità, offrono efficienza nel sistema e costi produttivi più bassi rispetto a quelli del nostro Paese, non è d’accordo.
Ciò può costituire un effetto negativo che distruggerebbe posti di lavoro anziché crearne di nuovi.
Serve il consenso delle parti, l’aiuto concreto della politica e un pizzico di coraggio in più da parte sindacale. Cosa, quest’ultima, auspicata ma non diffusa in tutte e tre le confederazioni. Il coraggio serve per usare il termine, caro all’imprenditoria italiana, flessibilità in positivo, una flessibilità cioè che pone l’accento sulla valorizzazione delle risorse umane.
Ci sono già esperienze significative frutto della contrattazione e non della legge.
L’approccio è quello di organizzare la scelta dei tempi di lavoro, tempi di formazione e tempo libero avendo come riferimento l’intero arco di vita degli individui.
E’ robusta, secondo, Mazzetti, la carenza di fantasia sul versante dello sviluppo occupazionale.
Vanno rimosse tante incrostazioni, vanno stimolate tutte le risorse, va data, appunto, libertà a tutta la fantasia possibile.
Allora non servono leggi, ma la sperimentazione di nuove vie, altrimenti saremmo costretti a discutere ai margini del nuovo comandamento : essere competitivi. Esserlo con tutti e su tutto.
Roberto De Santis


 

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